di Emanuela Corda – Di tutti i campi applicativi dell’intelligence e della HUMINT, l’ambito carcerario è quello in cui l’importanza della fonte umana è assoluta.
Quando parliamo di intelligence penitenziaria (IP), ci riferiamo a un processo continuo e sistematico di raccolta, valutazione, collazione, analisi di informazioni eterogenee e affidabili, raccolte all’interno e in relazione al sistema carcerario.
L’obiettivo primario dell’intelligence penitenziaria è quello di sostenere una efficace gestione della sicurezza, attraverso la produzione di una specifica conoscenza, nonché di fornire delle valutazioni mirate e tempestive alle autorità competenti, a livello centrale, regionale e locale, non solo riferite all’ambito penitenziario ma anche a quello esterno, collaborando con altre autorità strettamente interessate alla conoscenza di queste informazioni, quali ad esempio la magistratura o le forze di polizia. In questo senso, il peso assunto dalla polizia penitenziaria nell’ambito della pubblica sicurezza e negli ambiti interforze, diventa sempre più evidente e di primaria importanza, soprattutto in uno scenario generale nazionale in cui la prevenzione contro le minacce necessità di un adeguamento fluido, costante, in grado di seguire gli schemi e i cambiamenti sociali che coinvolgono più generazioni e più identità (si pensi al fenomeno delle nuove gang italiane ed extracomunitarie)
Quello della IP è uno sforzo costante e continuativo mirato a garantire e migliorare la sicurezza carceraria in tutto lo spettro della sua operatività, dalla sicurezza fisica del luogo quale elemento chiave nella più vasta dimensione della sicurezza pubblica, a quella procedurale, supportando le attività di prevenzione e gestione del rischio, operando per anticipare fenomeni criminosi che possono manifestarsi all’interno della prigione con effetti che potrebbero diramarsi anche all’esterno, si pensi soprattutto alla minaccia terroristica, della criminalità organizzata, al fenomeno del radicalismo violento. L’apparato di intelligence penitenziaria è inoltre decisivo per fornire supporto informativo alle decisioni operative e gestionali che regolano la sicurezza della vita interna al carcere, come ad esempio la classificazione dei detenuti, i trasferimenti, la valutazione dei benefici penitenziari individuali, la gestione dei regimi speciali.
E’ quindi corretto affermare che tutti gli agenti della polizia penitenziaria e soprattutto quelli impegnati in primissima linea sul campo nelle aree più delicate, come il Gruppo Operativo Mobile (GOM) e il Nucleo Investigativo Centrale (NIC) possono avere una visuale privilegiata sulle dinamiche criminali esistenti in Italia, osservando nel microcosmo del carcere dei modelli di relazione, confronto, scontro fra gli attori principali del mondo criminoso, terroristico, eversivo.
In virtù di ciò, l’IP ha assunto fin dal principio, anche in Italia, una importanza decisiva nella comprensione delle dinamiche carcerarie e delle reti relazionali interne fra detenuti: se negli Stati Uniti la sua nascita fu primariamente motivata dal fenomeno delle prison gangs, in Italia nacque per monitorare e contrastare proprio i fenomeni dell’eversione e del terrorismo nazionale, strutturandosi in maniera efficace su queste necessità per poi evolvere, nel tempo, verso un processo di comprensione più ampia, che oggi è in grado di supportare, tra le altre, le attività di polizia giudiziaria fornendo elementi utili per indagini su reati commessi anche all’esterno degli istituti di pena, avvalendosi del coinvolgimento e della collaborazione anche di figure esterne alle autorità del carcere ma che operano in ruoli chiave per la comprensione delle dinamiche territoriali: si pensi agli educatori, agli infermieri, ecc…
Era il 1977 quando il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa contribuiva a porre le fondamenta dell’intelligence penitenziaria italiana con l’Ufficio per il coordinamento dei servizi di sicurezza degli istituti di prevenzione e pena, più noto come Sicurpena, un ufficio del Ministero di Grazia e Giustizia che aveva il compito di gestire la raccolta e l’analisi di intelligence provenienti da tutto il sistema penitenziario italiano in contrasto specifico alla minaccia terroristica di quel periodo storico. Nello stesso tempo, nascevano in Italia le carceri speciali, prigioni di massima sicurezza destinate alla gestione dei detenuti collegati al terrorismo di qualsiasi matrice. Si deve tenere presente che il contesto penitenziario in quegli anni era particolare: con i terroristi come prima minaccia alla sicurezza pubblica, il carcere diventava un luogo geografico politicizzato dove molto facilmente e sempre più spesso venivano intessute relazioni, collaborazioni e alleanze che si riflettevano fuori dalle mura e diventava un luogo di reclutamento efficace fra i detenuti comuni, rendendo difficile il monitoraggio del network umano in costante movimento intorno ai detenuti di rilievo.
Sempre in quegli anni poi, l’ambito penitenziario assunse un valore inedito nel gioco di potere tra detenuti e autorità, con i primi che erano in grado di organizzare manifestazioni e campagne la cui pressione influenzava seriamente le dinamiche politiche esterne, si pensi alle rivolte dell’Asinara, del carcere di Trani, al rapimento del magistrato Giovanni D’Urso (Direttore dell’ufficio III della Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena presso il Ministero di Grazia e Giustizia) ad opera delle Brigate Rosse, che fu orchestrato proprio per chiudere l’Asinara e per chiamare a raccolta con il coinvolgimento politico i “Prigionieri Proletari” delle carceri di tutta Italia.
Impossibile non riconoscere quindi l’ambito carcerario non solo come terreno di reclutamento ma anche come laboratorio ideologico e leva di potere verso lo Stato. Il Generale Dalla Chiesa riconobbe le debolezze per la sicurezza nazionale che il mondo penitenziario allora rappresentava e per questo scelse di operare cambiamenti sostanziali, introducendo elementi inediti di intelligence verso i detenuti e gli spazi interni. Non si deve dimenticare che in quel periodo storico, con quella precisa minaccia che al di fuori delle mura portava avanti una guerra fatta di bombe e assassinii, a scontare la pena vi erano figure che non interrompevano il loro impegno alla causa terroristica, anzi potevano sfruttare la pena per scopi precisi. Un esempio fu Giovanni Senzani, ambiguo protagonista del terrorismo legato alle Brigate Rosse, ideologo e attivista di un cambiamento scissionista interno alle BR che si basava sul coinvolgimento delle classi più marginali quali detenuti comuni, piccoli criminali, tossicodipendenti, come strategia per l’allargamento della lotta soprattutto nel Sud Italia.
Dai tempi di Sicurpena, l’approccio delle autorità italiane all’IP è variato negli anni, così come si sono evolute le minacce del presente: lo smantellamento dell’Ufficio negli anni Novanta ha generato uno stop quasi totale sul controllo delle informazioni su scala nazionale, riprendendo vigore solo nella storia più recente con l’istituzione dei NIR, i Nuclei Investigativi Regionali dislocati appunto su tutta la penisola, che fanno capo al Nucleo Investigativo Centrale, che contrastano all’interno del carcere fenomeni di natura varia, dal terrorismo alla criminalità organizzata, dalle gang al jihadismo.
Doveroso citare a questo punto la vicenda che coinvolse fra il 2003 e il 2007 i vertici del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e quelli del SISDE con il “protocollo Farfalla”, l’ “Operazione Rientro” (2005 – 2007) e più tardi con la “vicenda Flamia” (2008 – 2013). Si tratta di un esempio non riuscito di come si provò ad attuare una intelligence combinata tra due dipartimenti, quello penitenziario e i servizi segreti, per ottenere secondo vie traverse, non ufficiali e non conformi informazioni riservate da boss reclusi in regime di 41 bis, una iniziativa che secondo il rapporto Copasir del 2015 sulla vicenda, nacque in seno a rapporti personali e fu manovrata per restare segreta ad altri organi dello Stato, quali la magistratura.
Come sottolineato dal rapporto del Copasir, va tenuto conto del contesto dell’epoca: il regime di 41-bis era da anni al centro non solo di feroci polemiche in ambito politico, ma creava dei sostanziali problemi all’interno del mondo criminoso stesso, favorendo la nascita di rapporti sempre più stretti fra detenuti nel regime per reati di natura mafiosa e quelli di natura terroristica. L’Operazione Farfalla nasceva quindi in un momento in cui lo Stato e tutte le sue autorità erano fortemente interessate a monitorare e gestire ciò che avveniva all’interno del mondo penitenziario, ma si basava su strategie non solo fallaci ma anche non rispettose della catena informativa e di comando. L’operazione si strutturava sull’idea di individuare target importanti del 41-bis e non, quali boss della mafia in condizioni di particolare difficoltà, boss isolati dalla famiglia o dal clan, con necessità che potevano essere sfruttate, che avrebbero in cambio di benefici speciali e soldi derivanti da fondi dei Servizi Segreti, rivelato informazioni utili sul mondo mafioso intra ed extra carcerario.
Nonostante la difficoltà che il Copasir ebbe nel trovare materiale informativo legato all’operazione Farfalla sia dal lato DAP che SISDE, e che fu secondo le indagini impostata e strutturata a voce tra dirigenti dei due dipartimenti, nel 2015 i responsabili della commissione di indagine decretarono che il fallimento fu dovuto soprattutto all’incapacità degli agenti coinvolti di relazionarsi con i boss e ottenere con loro un rapporto di fiducia, un’attività di approccio e contatto che richiede una formazione adeguata che rientra nell’ambito della HUMINT e che dovrebbe seguire linee guida determinanti per la riuscita dell’avvio di un rapporto con una fonte. Il resoconto della commissione inoltre dichiara che in definitiva quella del “protocollo Farfalla” fu una operazione mai avviata, su cui aleggia comunque, ancora oggi, una certa attenzione.
Così come da prassi nel campo generale dell’intelligence, anche quella penitenziaria segue un ciclo che è, o dovrebbe essere, ben definito (intelligence cycle) e che consiste in fasi determinate: definizione del compito, attività di raccolta dei dati, valutazione delle fonti e delle informazioni, analisi comparativa degli elementi disponibili, formulazione di ipotesi, redazione e diffusione mirata di un documento conclusivo, rivalutazione delle informazioni e delle conclusioni prodotte, un passaggio quest’ultimo che conduce virtualmente a un rinnovato impulso sull’informazione, grazie proprio all’azione di feedback e aggiornamento che risulta un passaggio di determinante importanza.
Un caso studio che mette in luce i possibili effetti di una IP debole e di un ciclo di intelligence mal gestito, è quello di Amédy Coulibaly, terrorista francese affiliato allo Stato Islamico colpevole degli attentati dell’8 e 9 gennaio 2015 a Parigi in cui morirono 5 persone e in cui lui stesso venne colpito a morte dagli agenti. Coulibaly era anche un elemento della ristretta cerchia dei fratelli Kouachi, affiliati di Al-Qaeda, che nell’attentato alla sede di Charlie Hebdo il giorno prima, sempre a Parigi, avevano ucciso dieci persone.
Amédy Coulibaly entrò in detenzione in Francia sei volte negli anni dal 1999 al 2013, scontando la pena in cinque istituti penitenziari diversi e passando pressoché inosservato alle autorità penitenziarie francesi, che su di lui non raccolsero nessuna intelligence perché all’epoca l’intelligence penitenziaria non era strutturata. Ciò si tradusse in una totale assenza di note o rapporti sui suoi legami interni al carcere, sulle sue attività, su visite, colloqui, manifestazioni di interesse religioso o culturale. Eppure proprio in carcere conobbe Chérif Kouachi, che lo introdusse alla conoscenza e conversione all’Islam; proprio come Kouachi, anche Coulibaly fu descritto quale detenuto senza particolari necessità di controllo, un “detenuto quasi esemplare” che non creava problemi e che, secondo una valutazione psichiatrica, era affetto da qualche disturbo mentale. Lo stesso Coulibaly nel 2010, durante l’inchiesta per il tentativo di evasione di Alì Belkacem, raccontava alla polizia che sì, conosceva molto bene i Kouachi, ma questo non faceva di lui un terrorista, poiché le sue conoscenze radicalizzate in prigione erano abbastanza numerose. Nessuno indagò sui reali rapporti intercorsi tra Kouachi e Coulibaly durante la convivenza in carcere, tanto meno furono messe sotto osservazione altre figure di primaria importanza del mondo jihadista francese: questo avrebbe permesso di notare i Kouachi e Coulibaly quando andavano a trovare una figura di spicco dell’Islam salafita, detenuto presso un centro di custodia alla periferia di Parigi.
Una storia, quella di Coulibaly, che mostra quanto siano estese e, con il senno di poi, perfettamente traducibili ed essenziali le informazioni reperibili nel mondo carcerario, ad uso e vantaggio della sicurezza nazionale.
In seguito alle indagini e al lavoro della commissione di inchiesta francese sugli attentati, il fallimento del sistema di intelligence penitenziaria è stato attribuito alla totale mancanza di una dottrina e di un’architettura specifica e specializzata in materia, una mancanza a cui si è cercato di correre ai ripari con una riforma allargata e rapida che, esattamente come il modello italiano, si concentra su obiettivi primari di monitoraggio e prevenzione di minacce alla sicurezza penitenziaria e nazionale e che sta puntando in maniera sostanziale sulla formazione specializzata degli operativi per far sì che il livello di competenze e procedure siano al massimo livello di efficacia.
Anche in Italia la formazione specifica nell’ambito dell’IP ha preso sempre più piede e importanza negli ultimi anni, avvalendosi di molti strumenti sia interni al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) sia sfruttando competenze e tools interforze, ma anche guardando all’esperienza del mondo civile e accademico nel campo dell’intelligence. La stabilità del e nel sistema penitenziario, è un fattore complesso e ampio, in cui si intersecano più forme di garanzia e tutela della sicurezza che hanno in comune le skill degli agenti in prima linea a contatto con i detenuti (intelligence ma anche sicurezza dinamica a fronte di quella statica). Se la formazione è una prassi essenziale per tenere alto il livello di efficacia dell’IP, il fattore umano è vitale, non solo per il ciclo di raccolta e analisi ma anche per il vissuto quotidiano, dove le relazioni interpersonali fra detenuti e agenti hanno una influenza ambientale concreta e compensano i limiti di una sicurezza fatta solo di interazioni standardizzate.
La predisposizione degli agenti a buone pratiche quali interazioni positive e costanti, manifestazioni di interesse attivo, ascolto e comunicazione, possono essere potenziate sempre con una formazione ben indirizzata, accompagnata da percorsi specifici dedicati alla HUMINT: la figura dell’agente penitenziario si adegua quindi, a 360 gradi, alle necessità della sicurezza nazionale in un’area di interesse assolutamente primario per la prevenzione e analisi delle minacce al sistema-nazione, un contesto di influenza che mostrandosi in tutto il suo rilievo sociale, smette di essere puramente geografico, ristretto e marginale.
Fonti per approfondire
Ezio Antonio Giacalone, Origini e fondamenti dell’intelligence penitenziario, in Rivista Trimestrale della Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia, Anno 2020 n. 2-3
Alessandro Salvemini, L’analisi del patrimonio informativo proveniente dal mondo carcerario. Rapporto con l’Autorità giudiziaria e tra le Forze di polizia e pianificazione di un modello condiviso di gestione del flusso informativo per finalità preventive ed investigative, Rivista Trimestrale della Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia, Anno 2023 n. 1
I percorsi dell’ideologia B.R. 1^ e 2^ posizione, rivista GNOSIS 1/2005
Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, Relazione sulle cosiddette Operazioni “Farfalla” e “Rientro” e sulla vicenda “Flamia”, rel. Sen. Giuseppe Esposito, marzo 2015
AFP, Le renseignement pénitentiaire, ou le petit frère qui prend du galon, L’Express, 20 gennaio 2015
Emanuela Corda è responsabile dell’Osservatorio sulla Disinformazione, sull’Estremismo e sul Radicalismo Online e direttrice editoriale del Blog e della Newsletter “Minacce Strategiche e Sicurezza Democratica” dell’Istituto Germani.